Molti anni fa, quando cominciò a scrivere di ecologia, mio padre Gregory ipotizzava che la finalità cosciente potrebbe essere una caratteristica fatale della specie umana, una caratteristica che porta gli esseri umani a perseguire fini concepibili in un’ottica limitata, senza la comprensione dei loro effetti distruttivi.A quel tempo mi formai la convinzione che l’unico modo di affrontare il problema fosse quello di apprendere nuove e più inclusive forme di attenzione e di presa di coscienza. Oggi, più di vent’anni dopo, individuo il passo successivo nel concetto di risposta. E’ interessante notare che, a dispetto dell’enfasi diversa, la parola risposta contiene l’etimologia di responsabilità.
Visto che la regola del gioco oggi più diffusa è quella di attribuire ad altri la responsabilità delle proprie azioni – il nome del gioco è "eteronomia" – le mie argomentazioni, mi rendo conto esprimono una rivendicazione impopolare.
Non dobbiamo dare sempre ad altri la responsabilità dei mali della società. La società siamo noi, ognuno di noi, siamo tutti, chi più, chi meno, corresponsabili dello stato della società.
Siamo responsabili non solo di ciò che facciamo e produciamo, ma anche della scelta di dove guardare, dove ascoltare, dove leggere. In altre parole, siamo responsabili non solo del nostro output, ma anche del nostro input.
L'uomo è condannato a essere libero: condannato perché non si è creato da se stesso, e pur tuttavia libero, perché, una volta gettato nel mondo, è responsabile di tutto ciò che fa.
La gente vive inconsapevolmente, ma non lo vede. Continua a ripetere: “La mia vita è infelice”, e afferma di non voler vivere nell’infelicità, ma continua a scaricare la responsabilità su qualcos’altro, su qualcun altro: il fato, la società, la struttura economica, lo Stato, la chiesa, la moglie, il marito, la madre; comunque il responsabile è qualcun altro.
Potrebbe sembrare strano di questi tempi rivendicare autonomia, perché autonomia implica responsabilità: se io sono il solo a decidere come agire, allora sono responsabile della mia azione.
Nessuno è responsabile di quello che è, e neppure di quello che fa. È evidente, e tutti più o meno ne convengono. Perché allora osannare o denigrare? Perché esistere equivale a valutare, a formulare giudizi, e l'astensione, quando non sia effetto dell'apatia o della viltà, esige uno sforzo che nessuno intende compiere.