La fatica di leggere non può competere con la facilità di guardare, e allora, rispetto al libro, la televisione sarà il medium più amichevole perché è quello che "dà meno da fare".
A cosa serviranno mai i libri? A imparare? No di certo, per imparare basta andare a scuola. No; io credo che un libro debba essere davvero una ferita, che debba cambiare in qualche modo la vita del lettore. Il mio intento, quando scrivo un libro, è di svegliare qualcuno, di fustigarlo. Poiché i libri che ho scritto sono nati dai miei malesseri, per non dire dalle mie sofferenze, è proprio questo che devono trasmettere in qualche maniera al lettore. No, non mi piacciono i libri che si leggono come si legge un giornale: un libro deve sconvolgere tutto, rimettere tutto in discussione. Il motivo? Ebbene, io non mi preoccupo molto dell'utilità di quanto scrivo, perché veramente non penso mai al lettore: scrivo per me, per liberarmi delle mie ossessioni, delle mie tensioni e nient'altro. Poco tempo fa una signora, nel «Quotidien de Paris», diceva di me: «Cioran scrive quello che ognuno si ripete sottovoce». Io non scrivo con lo scopo di «fare un libro», perché venga letto. No, scrivo per disfarmi di un peso. Soltanto dopo, meditando sulla funzione dei miei libri, dico tra me che dovrebbero essere come una ferita. Un libro che lascia il lettore uguale a com'era prima di leggerlo è un libro fallito.
Immaginate che vi siano dei libri leggendo i quali si provano sensazioni simili a quelle causate da certe sostanze stupefacenti. La gente leggerebbe molto di più. In effetti ci sono certi libri che in certe persone provocano simili sensazioni, anche se in modo molto più blando.
I libri non servono per sapere ma per pensare, e pensare significa sottrarsi all'adesione acritica per aprirsi alla domanda, significa interrogare le cose al di là del loro significato abituale reso stabile dalla pigrizia dell'abitudine.
Io credo che un libro debba essere davvero una ferita, che debba cambiare in qualche modo la vita del lettore. Il mio intento, quando scrivo un libro, è di svegliare qualcuno, di fustigarlo. Poiché i libri che ho scritto sono nati dai miei malesseri, per non dire dalle mie sofferenze, è proprio questo che devono trasmettere in qualche maniera al lettore. No, non mi piacciono i libri che si leggono come si legge un giornale: un libro deve sconvolgere tutto, rimettere tutto in discussione.
La recensione è un genere letterario da abolire perché induce al riassunto, quindi alla chiusura del libro. I libri invece vanno aperti, sfogliati, dissolti nella loro presunta unità, per offrirli a quella domanda che non chiede "che cosa dice il libro?", ma "a che cosa fa pensare questo libro?
In libreria, ogni libro mi dice «Leggimi, ne ricaverai un vantaggio, un piacere, un'appartenenza, uno status, una chiave per aprire porte o per capire cose, qualcosa di cui parlare con altri, una conferma dele tue idee e della tua moralità, un divertimento, una distrazione dai tuoi problemi, ecc.». Ma i libri sono migliaia e non so quali considerare. Inoltre mi viene il sospetto che siano tutti, o quasi, ciarlatani, cioè venditori di illusioni.
Ci sono libri che servono solo a rassicurare il lettore circa la propria dignità sociale, specialmente per quanto riguarda le proprie opinioni, in quanto coerenti con quelle dell'autore e della maggioranza degli altri lettori-sostenitori.
I libri ci danno un diletto che va in profondità, discorrono con noi, ci consigliano e si legano a noi con una sorta di familiarità attiva e penetrante.
Quando un libro di duecento pagine ne contiene dieci istruttive e suggestive, dobbiamo ringraziare l'autore e far conto che il resto non sia stato scritto.
Scrivere un libro implica sfidare intellettualmente sia coloro che hanno scritto libri che esprimono idee diverse, sia coloro che non ne hanno scritto alcuno. Infatti, chiunque dica o scriva qualcosa che non sia ovvio o scontato si pone come uno che, rispetto a quella cosa, la sa più lunga degli altri. In tal senso ogni autore è arrogante e presuntuoso.